Cloud - ghost e dark kitchen, il ristorante che non c'è!
Prima di parlare di dark kitchen e chiederci se Belluno possa essere pronta a questa tipologia di ristorazione, dobbiamo precisare che di “cucine dark” se ne parla molto ora, a causa della pandemia Covid, ma questo modello esiste da moltissimo tempo e fa parte, soprattutto, della cultura dei paesi del nord Europa.
A Milano, ovviamente, le dark kitchen non sono una novità, ma sfruttiamo il nostro territorio dolomitico così sempre vergine, per fare chiarezza e capire se questo modello avrebbe senso in mezzo al patrimonio Unesco!
Dicevamo…
- cloud kitchen: uno spazio viene affittato a più brand che danno vita ad un co-working culinario;
- ghost kitchen: in uno spazio viene costruito un laboratorio di cucina che lavora solo con delivery;
- dark kitchen: è la cucina di un ristorante già esistente. L’accesso ai clienti viene chiuso e la cucina lavora solo per servizi di delivery e take away.
Dunque la dark kitchen non viene progettata e allestita in un nuovo spazio, ma è la trasformazione di un ristorante che decide che il suo business lo coltiva al di fuori delle sue sale.
E pare con grande successo!
Nella ristorazione della pandemia, tutti i locali sono diventati un po’ dark kitchen, anche se dietro a questo modello c’è una grande lavoro di organizzazione della cucina e delle consegne, ed un marketing che lavora a pieno ritmo per rendere accattivante ed unica questa esperienza.
- la location del ristorante diventa la App con cui ordini
- le sale del ristorante sono le case dei consumatori
- il menù lo fanno i dati
La ristorazione sta davvero ridisegnando il mercato e nei vantaggi di questo modello, ci sono anche alcuni “contro” che è bene sottolineare.
La dark kitchen non può tracciare il comportamento e i tempi reali di consegna del fattorino, perciò il ristoratore è responsabile del risultato nonostante l’ultima fase sia tutta in mano a “estranei”.
Le commissioni per avvalersi delle aziende come Glovo, Foodracers, Deliveroo, etc., sono ancor molto molto importanti, il food cost diventa quindi ancor più essenziale.
Il packaging non può più essere di carta stagnola, richiede materiali compostabili e a prova di tenuta, stilosi e unici. L’investimento non è poco.
I dati che vengono raccolti sulle abitudini dei consumatori, sono di proprietà delle aziende di delivery, quindi al ristoratore resta da fare i conti su ciò gli viene trasferito senza averne pieno possesso.
Infine, l’esperienza di un tavolo, una tovaglia, un cameriere. Manca totalmente la bellezza di “farsi servire e riverire“.
Solo che i dati attuali parlano chiaro: una volta che il nostro Paese sarà uscito definitivamente dalla pandemia, il 51% degli italiani preferirà continuare a cucinare a casa o, al massimo, a ordinare pranzi e cene da consumare in luoghi familiari e con persone di fiducia.
Per cercare di ridurre i “contro” della dark kitchen, alcuni ristoratori hanno cercato di organizzarsi per essere cuochi e fattorini e quindi di impiegare il personale che era di sala per la consegna a casa. Questo, però, comporta la conoscenza del territorio, una capacità di organizzazione non indifferente, mezzi e materiali per muoversi e conservare i piatti a temperatura.
Altri ristoratori hanno semplicemente deciso di diventare una cloud kitchen, cioè di utilizzare un unico spazio in più professionisti (pizza + birra artigianale + cocktail), così da offrire al consumatore differenti esperienze in un unica consegna, ponendo il cloud nella condizione di spartirsi i costi di commissioni, packaging e la base delle materie prime.
E Belluno come reagirebbe all’apertura di una dark kitchen?
Abbiamo un territorio enorme, una mobilità difficile e mancanza di infrastrutture.
Pensare di aprire una dark kitchen, significa avere bene in testa il raggio di copertura che sia sostenibile, sia per la qualità dei piatti, sia per l’organizzazione ed i tempi di consegna, che per costi e ricavi.
Durante il Covid molti hanno strutturato le consegne a domicilio in maniera davvero egregia, macinando un sacco di chilometri e creando delle piccole hub nei borghi o nelle frazioni. Non sappiamo i ricavi, ma i locali hanno guadagnato in fidelizzazione dei clienti, persone che si sono sentite ascoltate nella necessità di un pasto a casa e che hanno ricambiato sostenendo le realtà locali e investendo in queste forme di consumo.
Però possiamo tenere a mente un vecchio insegnamento: non siamo per tutti e non possiamo pensare di aprire una dark kitchen e di voler soddisfare tutti.
La dark kitchen è un’esperienza positiva, può essere davvero un luogo di sperimentazioni culinarie e ha delle potenzialità enormi.
Quindi, sì, Belluno può essere terreno fertile perché il Covid ci ha fatto scoprire che la cena che arriva a casa è una bella comodità quando l’unico orizzonte dopo una giornata di lavoro è toglierti le scarpe e non pensare più a nulla.
E sì, perché se accetta i limiti del territorio, può, un domani, pensare di espandersi in provincia con piccoli franchising 😉
Il grande investimento, però, sta nella tecnologia, quindi sito, app, social, colori, linguaggio, messaggio… se decidi di trasformare il tuo locale in dark kitchen, preparati ad abbracciare tutte le nuove tecnologie possibili!